Italian Camera approves of a draft law facilitating citizenship acquisition by children of long-term resident third country nationals

I babmini cittadini di domani, by Giovanna Zincone, EUDO citizenship expert 

La notizia dell’approvazione della riforma della cittadinanza alla Camera è un’ottima notizia. Lo è per i suoi contenuti, lo è anche per il modo in cui ci si è arrivati. Nei contenuti si tratta di una legge equilibrata. Sarà più facile diventare cittadini per i bambini nati in Italia e anche per chi ci è arrivato da piccolo o da adolescente, ma solo a condizione che ci siano chiari segnali di radicamento. Infatti, per averla da appena nati, occorre che il padre o la madre abbiano un diritto di soggiorno permanente se comunitari, o una carta di soggiorno di lungo residente, se extra comunitari. La carta si ottiene dopo almeno 5 anni di permesso regolare, quindi dopo un consistente periodo di occupazione e reddito stabili. Sia i bambini nati in Italia che non hanno un papà o una mamma lungo residenti al momento della nascita, sia quelli che in Italia non sono nati ma ci sono arrivati prima dei 12 anni possono diventare cittadini a patto che siano vissuti in Italia per almeno 5 anni e che abbiano studiato nelle nostre scuole. Devono aver compiuto almeno un ciclo di istruzione o un percorso di  formazione professionale. Per chi arriva dopo i 12 anni, servono sempre  studi o formazione, ma il soggiorno sale a 6 anni e soprattutto si tratta di una concessione più discrezionale. La nostra è una legge di stampo europeo, lo è anche rispetto all’istituto del cosiddetto “doppio ius soli”, in base al quale  è cittadino il figlio di uno straniero a sua volta nato nel territorio dello stato. 

Tralascio altri particolari perché mi pare interessante ricostruire il percorso accidentato di questa riforma. Forse ci insegna qualcosa sui meccanismi con cui si prendono alcune decisioni pubbliche in Italia e su come questi meccanismi possono evolvere, cambiare. Di una riforma della cittadinanza rispetto agli immigrati si comincia a parlare già durante il dibattito parlamentare che porta alla votazione dell’ultima importate legge in materia, quella del 1992, che premiava soprattutto i discenti del italiani all’estero e  penalizzava fortemente gli immigrati non comunitari. Risale al 1998 il primo importante tentativo di riforma, quando Livia Turco, allora Ministra degli Affari Sociali, promette che “Il 1999 sarà l’anno dei nuovi cittadini”. La sua riforma avrebbe stabilito per gli adulti non comunitari un ritorno ai 5 anni di residenza, previsti dalla legge del 1912, rispetto ai 10 della legge del 1992 e un trattamento dei minori abbastanza simile a quello della legge votata ieri alla Camera. Il suo progetto abortì prima di nascere. Seguirono varie proposte di legge che si arenarono sostanzialmente per tre motivi. Primo motivo, le priorità: per i governi in carica c’erano sempre altre più gravi questioni (per lo più economiche, ma non solo) da risolvere. Un secondo motivo si può far risalire all’atteggiamento di quella che definisco la ‘forte lobby dei deboli’. E’ una lobby di matrice soprattutto cattolica che si occupa prioritariamente di chi sta peggio, quindi di regolarizzare gli irregolari, sia con misure ad hoc, sia attraverso flussi programmati che in teoria dovrebbero fare entrare nuovi immigrati, ma che in pratica servono soprattutto a sistemare chi è già qui. In quest’ottica, la cittadinanza è un obiettivo minore. Questa benevola strategia della lobby è rafforzata dalla pressione congiunta di imprenditori e famiglie, queste ultime interessate a regolarizzare colf e badanti. Perciò ha successo anche con i governi di centro destra. Il terzo motivo è che la battaglia sulla cittadinanza viene utilizzata come bersaglio improprio della guerra  tra chi è a favore e chi è contrario agli immigrati in generale, tra chi capisce che l’Italia è fatta di immigrati e chi comunque rifiuta gli stranieri come un corpo estraneo e su questo gioca le sue fortune elettorali. Ma anche i politici che accettano il nuovo volto dell’Italia possono avere paura che i propri elettori non capiscano la battaglia per la cittadinanza e tentennano o possono aver bisogno di alleanze opportunistiche con partiti xenofobi e adeguarsi.  Perché allora questa riforma sta andando finalmente in porto? Di nuovo i motivi sono più di uno. Primo: un nuovo scenario degli attori in gioco. C’è sempre la nostra lobby di matrice cattolica, ma a mobilitarsi sono soprattutto gli amministratori locali, le stesse seconde generazioni, in particolare la Rete G 2.  La campagna “18 anni … in comune”, ad esempio, è opera anche loro. Mi riferisco all’iniziativa di avvisare i ragazzi prima che compiano i 18 anni del loro diritto ( in base alla legge del 1992) di richiedere la cittadinanza italiana. Questa prassi introdotta da alcuni comuni pionieri, è stata poi sponsorizzata dall’ANCI. Nel successivo “Decreto del Fare” del 2013 si inserisce l’obbligo per gli Ufficiali di Stato Civile dei comuni di avvisare i ragazzi sul loro diritto e, in caso di mancato avviso, il termine per fare domanda viene prorogato. La legge votata ieri riprende questo obbligo. La stessa rende meno stringente il controllo della continuità degli anni di residenza previsti perché i ragazzi possano ottenere la cittadinanza. Anche questa misura viene da lontano: non solo era già inserita nel “Decreto del Fare”, ma prima ancora c’erano state sentenze dei giudici in questa direzione e la circolare del 2007 del Ministro Amato. Cosa ci insegna tutto questo? Che le decisioni pubbliche nascono spesso dalla società civile e dalla magistratura, che si muovono dalle amministrazioni locali, dalle periferie verso il centro, che partono da forme leggere, da prassi che diventano  circolari, direttive, e poi decreti fino a trasformarsi nella più solida forma di leggi. Il percorso della cittadinanza ci dice anche che i protagonisti della formazione delle decisioni cambiano. Nel nostro caso sono diventati relativamente più laici e finalmente hanno contato i destinatari stessi: i giovani immigrati, i fratelli maggiori, si sono mobilitati. La nuova legge ce la farà perché i suoi promotori hanno focalizzato strategicamente il loro obiettivo sui bambini. Quindi questa ricostruzione ci suggerisce qualcosa di ancora più importante: i bambini possono muovere le corde della giustizia. Lo ha fatto il piccolo corpo di Aylan, lo fanno le dolorose immagini di profughi bambini . Perciò una TV ungherese ha vietato ai suoi operatori di inquadrarli. Perciò molti non vogliono vederli, sono gli stessi che vorrebbero negare la cittadinanza ai compagni di scuola e di giochi dei propri figli, dei propri nipoti.